giovedì 15 gennaio 2009

Io boicotto

“La strategia più efficace per fermare un’occupazione sempre più sanguinosa è far sì che Israele diventi il bersaglio della stessa specie di movimento globale che fermò l’apartheid in Sudafrica”. Lo scrive Naomi Klein su The Nation (http://www.thenation.com/doc/20090126/klein?rel=hp_currently) ricordando come alcuni gruppi palestinesi da anni chiedono di condurre iniziative di boicottaggio e di disinvestimento contro Israele, simili a quelle che furono applicate al Sudafrica negli anni dell’apartheid. (http://www.bdsmovement.net/). L’intervento della Klein arriva mentre qui da noi le polemiche, gli imbarazzi, la confusione tra antisemitismo, antisionismo, critica al governo di Israele, si uniscono alla preoccupante difficoltà della sinistra di mobilitarsi contro il massacro a Gaza.
Alla causa del boicottaggio economico contro Israele – ricorda Klein – hanno aderito in questi giorni circa 500 artisti e studiosi israeliani. Questi “hanno inviato una lettera agli ambasciatori stranieri chiedendo di sollecitare ai loro governi misure restrittive e sanzioni”. “Il boicottaggio al Sudafrica – continua citando la lettera – fu effettivo. Ma Israele viene trattato coi guanti bianchi. Questo sostegno internazionale deve cessare”. “Molti di noi – riflette ancora Klein – non riescono ancora ad abbracciare questa causa. Le ragioni sono complesse, emotive e comprensibili. Ma semplicemente non valgono abbastanza. Le sanzioni economiche sono l’arma più efficace nell’arsenale della non violenza”.
Naomi Klein passa poi ad analizzare e a confutare quattro obiezioni possibile al boicottaggio economico di Israele. La prima: “Le misure punitive allontanerebbero invece che persuadere Israele”. L’”impegno costruttivo” che il mondo adotta nei confronti di Israele – osserva qui la Klein – è tragicamente fallito”. Infatti nell’ultimo periodo “Israele ha goduto di una forte crescita delle sue relazioni diplomatiche, culturali e commerciali con una varietà di alleati”. “E’ in questo contesto che i leader israeliani hanno iniziato la loro ultima guerra, con la certezza che non avrebbero dovuto affrontare significative reazioni.”
Seconda obiezione: “Israele non è il Sudafrica”. Naomi Klein cita a questo proposito il parere di Ronnie Kastrils, un politico sudafricano. Questi ha osservato che “l’architettura di segregazione vista all’opera nella West Bank e a Gaza è infinitamente peggiore di quella dell’apartheid”. “Il boicottaggio – aggiunge l’autrice canadese – non è un dogma, è una tattica: in un paese così piccolo e così dipendente dal commercio può funzionare”.
Terza obiezione: “Il boicottaggio restringerebbe la comunicazione e noi abbiamo bisogno di più dialogo”. Naomi Klein cita a questo proposito un’esperienza personale: racconta di aver smesso di pubblicare i suoi libri in Israele con la casa editrice Babel e di aver scelto al suo posto la più piccola e indipendente Andalus, “una casa editrice militante, profondamente convolta nel movimento contro l’occupazione, la sola casa editrice israeliana che traduce testi arabi in ebraico. “Il nostro piccolo piano di pubblicazione – racconta ancora Klein – ha richiesto decine di telefonate, scambi di email e sms tra Tel Aviv, Ramallah, Toronto, Parigi e Gaza City. Voglio dire, appena inizia una strategia di boicottaggio il dialogo cresce in maniera fortissima. L’argomento secondo il quale il boicottaggio produce una separazione è specioso data la disponibilità di tecnologia a basso costo che abbiamo tra le mani”.
L’ultima obiezione analizzata da Naomi Klein è questa: “Non sapete che molti di questi giocattoli tecnologici provengono proprio dai centri di ricerca israeliani, all’avanguardia mondiale dell’informatica”? La Klein, a questo proposito, cita il caso di Richard Ramsey, responsabile di una compagnia inglese specializzata in tecnologia per internet. Dopo l’inizio dell’assalto a Gaza, Ramsey ha rotto i rapporti con la compagnia israeliana MobileMax con questa email: “A causa dell’azione del governo israeliano degli ultimi giorni non ci riteniamo più nella posizione di fare affari con voi né con nessuna altra compagnia israeliana”. “Ramsey – spiega la Klein – ha dichiarato che la sua non è stata una decisione politica; semplicemente non voleva rischiare di perdere clienti”. E conclude Klein :“E’ stata questa sorta di freddo calcolo affaristico che ha portato molte industrie a rompere i rapporti con Sudafrica, vent’anni fa. E precisamente questo calcolo rappresenta la nostra più realistica speranza di rendere alla Palestina quella giustizia che le è stata così lungamente negata”.

[Naomi Klein]

Medici...

"La medicina è una scienza sociale
e la politica nient'altro che la medicina su larga scala"
[R.Virchow]

www.saluteglobale.it

...se questo è terrorismo sono terrorista...

Ayman H. Daraghmeh, deputato di Hamas, è stato appena eletto portavoce del movimento islamico in Cisgiordania. La nomina ha poco a che fare con la sua carriera di parlamentare del Consiglio Legislativo palestinese. Daraghmeh è uno dei pochi deputati di Hamas rimasti in libertà, visto che il suo predecessore è stato arrestato dalla polizia israeliana, nel silenzio di Fatah, il giorno prima. Lo stesso Daraghmeh, da un giorno all'altro, potrebbe seguire i suoi compagni di partito.

Se le venisse offerta una possibilità, in due parole, come spiegherebbe il movimento di Hamas?
Hamas è un movimento di resistenza, che lotta per ottenere la libertà nell'ambito della legge internazionale. La legge internazionale che vuole per lo stato indipendente di Palestina i confini del 1967, Gerusalemme capitale, il rilascio dei prigionieri politici e il ritorno dei profughi. Storicamente la Palestina è dei palestinesi, ma noi a queste condizioni accettiamo un compromesso con la politica.
Riconoscere l'esistenza di Israele? Lo decideranno i palestinesi, ma già da tempo i leader di Hamas si sono detti pronti a rivedere le posizioni del passato se i diritti dei palestinesi verranno rispettati.

Dovremmo parlare di politica e di democrazia, ma è difficile in queste condizioni. Ancora un parlamentare palestinese arrestato, sono 45 i deputati in carcere.
Noi abbiamo cominciato il nostro processo democratico nel 2006, nell'ambito di elezioni che tutta la comunità internazionale ha valutato valide. L'ex presidente statunitense Carter le ha definite una delle migliori tornate elettorali nel mondo, in quanto a trasparenza. Solo Israele non ha gradito il risultato, boicottando il risultato delle urne e dando il via alla violazione del rispetto della sovranità popolare palestinese. Perché a loro non piacciamo, perché il risultato non era buono per Olmert o per Condolezza Rice. Allora cos'è questa democrazia? I palestinesi hanno eletto i loro deputati, nessuno può ritenere che questi non vadano bene. Eppure nessuno ha imposto a Israele di rispettare le nostre elezioni. Nessuno. Come nessuno chiede a Israele di rispettare le risoluzioni dell'Onu, i confini del 1967 o lo status di Gerusalemme. Nessuno. Israele viola apertamente il diritto internazionale e pretende di parlare di processo di pace mentre manipola la situazione sul terreno, cambiando le carte in tavola a suo favore. Le faccio un esempio: dopo gli accordi di Oslo del 1993, da tanti salutati come un passo verso la pace, Israele ha permesso l'insediamento di mezzo milione di coloni in Cisgiordania. Questa non è pace. Non è pace costruire un muro. Loro dicono che è per la loro sicurezza, ma lo costruiscono sulla nostra terra. Lo stesso accade per le risorse naturali, l'acqua in particolare. Il popolo palestinese è tenuto in carcere. Si, in queste condizioni si fa fatica a parlare di democrazia. Soprattutto ora, considerando il massacro di Gaza, dove civili innocenti vengono uccisi senza colpa. E la comunità internazionale non muove un dito. Com'è accaduto sempre, anche durante la Seconda Intifada. Israele non vuole la pace. Tutto qui. Perché Israele non è una democrazia.

In questi giorni, raccogliendo le testimonianze di tanti palestinesi, non si capisce però, vista la situazione internazionali, per quale motivo lanciando i razzi verso le cittadine israeliane voi continuate a offrire un pretesto per operazioni come quella di Gaza.
La questione ruota attorno all'accordo della Mecca. Con il sostegno popolare abbiamo accettato una tregua, per permettere alla popolazione civile di Gaza di migliorare le loro condizioni di vita. L'accordo prevedeva, in cambio della sospensione degli attacchi contro Israele, l'apertura effettiva dei valichi di Gaza, perché potessero entrare generi di prima necessità per i civili. In cambio di queste garanzie avremmo sospeso il lancio dei razzi. Il governo israeliano ha violato questo accordo, tenendo sigillata la Striscia di Gaza, portando la popolazione civile allo stremo. E continuando anche gli attacchi contro i civili. Lo stesso in Cisgiordania. Non usiamo i razzi perché siamo costretti a farlo per combattere l'assedio e l'occupazione. Bush, quando è stato eletto, aveva promesso che non avrebbe lasciato la Casa Bianca senza portare la pace in questa regione. Fosse stato vero, fosse nato lo stato di Palestina, non avremmo bisogno di nessun razzo, mi creda. Avremmo offerto a Bush la presidenza onoraria della Palestina! Se hanno tutta questa propensione alla pace, e si lamentano dei nostri razzi, non si capisce perché hanno riempito di armi le forze di sicurezza palestinesi, quelle vicine a Fatah, armi che sono state usate contro di Hamas in Cisgiordania. Questa è pace? No, questo è un accordo con la parte dei palestinesi che fa comodo a Israele, ma che non rappresenta la popolazione civile palestinese. Io credo che sia sempre più evidente il progetto che spesso è trapelato dalla diplomazia israeliana: la Striscia di Gaza annessa all'Egitto e la Cisgiordania annessa al reame di Amman. Noi ci opponiamo a questo disegno.

Quali sono adesso le relazioni tra Hamas e Fatah?
La realtà la conoscono tutti, anche se in tanti tentano di mistificarla. Hamas ha subito un colpo di Stato da parte di Fatah. L'amministrazione Bush e Israele sono responsabili di quello che è accaduto. Ci sono le prove del sostegno dato a Fatah per rovesciare il risultato delle urne a nostro danno. In un altro contesto si dovrebbe andare in tribunale perché i responsabili vengano puniti. Invece il colpo di Stato è avvenuto, dividendo la popolazione e stringendo l'assedio a Gaza. Adesso la situazione è quella che conosciamo tutti e i contatti sono quotidiani. Non è facile, perché le pressioni internazionali non agevolano un accordo, ma almeno a Gaza si è ripreso il dialogo tra noi e Fatah, visto che non sono pochi i combattenti di Fatah che si sono uniti alla resistenza. Le divisioni politiche vanno messe in secondo piano, perché la nostra gente ci chiede di fermare questo massacro. Non condividerò mai la visione politica di Abbas, tutta appiattita sulla linea egiziana, quindi più interessata alle priorità occidentali che a quelle palestinesi, ma serve una tregua per la popolazione civile. Adesso questa è la priorità e Fatah e Hamas lo sanno.

Crede che senza il controllo capillare esercitato in questi giorni da Fatah in Cisgiordania ci sarebbe stata una sollevazione generale? Sarebbe cominciata la Terza Intifada?
Non lo so, perché alla gente in Cisgiordania è stato negato il diritto di dimostrare liberamente. Solo poche persone, molto controllate. Tanti sono stati arrestati e minacciati, addirittura sono stati utilizzati gas lacrimogeni contro le manifestazioni di solidarietà alla popolazione civile di Gaza. Ma non potrà durare a lungo. Se continua questo massacro, la popolazione si solleverà. Anche contro Fatah.

Cosa pensa delle dichiarazioni di alcuni leader del suo partito rispetto al mandato presidenziale di Abbas? E' ancora il suo presidente, o ritiene esaurito il mandato?
Come ho detto fino a questo momento non è questo il punto della questione. Il suo mandato è scaduto, ma lui si ostina a rimanere. Penso però che abbiamo cose più urgenti delle quali occuparci ora.

Cosa accadrà adesso? La Striscia di Gaza è a pezzi, mille morti e migliaia di feriti. Cosa pensate di fare a Gaza e in Cisgiordania?
La situazione è drammatica. La popolazione palestinese continua a vivere in una condizione disumana, come un popolo prigioniero, la cui esistenza è scandita dai check - point israeliani.
Credo che, prima o poi, si arriverà a una nuova tregua. Il presidente Abbas lavora per questo, per sospendere gli attacchi e per alleviare le condizioni della popolazione. Ma nel lungo periodo non ho grandi aspettative, perché non condivido l'entusiasmo di molti per l'elezione di Obama negli Stati Uniti. Potrà cambiare qualcosa in Iraq, ma in Palestina l'atteggiamento Usa resterà lo stesso. Un giorno, ne sono certo, anche se non so quando, avremo l'indipendenza, e allora nessuno parlerà più di razzi.

Christian Elia da Peacereporter

venerdì 9 gennaio 2009

il mio piccolo razzo...

Dalle dichiarazioni della Croce Rossa Internazionale sulla Striscia di Gaza:

"I loro corpi puzzavano perché giacevano, là dove erano morti, da troppo tempo.
I bambini erano deboli, troppo deboli anche per stare in piedi, perché lasciati privi dell'assistenza delle loro madri morte.
Una donna, tagliata in due dal colpo di un carro armato.
Due donne uccise da un missile nel cortile della loro abitazione."

"Abbiamo tirato fuori dalle loro abitazioni più di 90 persone che erano rimaste intrappolate in casa. Il loro aspetto era orribile: sono rimasti senz'acqua e senza cibo per giorni e giorni. Lo spettacolo che si è presentato agli uomini della Croce Rossa era devastante. Abbiamo chiesto un passaggio sicuro all'esercito israeliano sin da sabato, ma il permesso ci è stato concesso solo oggi".






E allora mi persi....


"Invece di andarmene da qui
piuttosto che
lasciarti ancora la soddisfazione
decisi di cambiare totalmente la mia posizione
è solo che
mi persi

E ancora ieri
consideravo che
se tu non c'eri io..
però è un pensiero inutile
ma sì ma sì lo so qual era il modo esatto
per riavere tutto
è solo che
mi persi

E poi chissà
ognuno ha il suo piccolo razzo
lanciato nel blu dello spazio
con dentro frammenti di sé
eh già

Ma sì ma sì lo so che avrei dovuto
prenderti e sfidare il mondo
è solo che
mi persi

Ma sai che c'è
che se ognuno ha il suo piccolo razzo
io devo aver perso il contatto
e adesso perdonami se
mi è rimasta soltanto
la parte peggiore di me"
[Mi persi, Daniele Silvestri]

giovedì 8 gennaio 2009

Boycott Israel




Da un articolo del mio prof., Angelo Stefanini

Riguarada il boicottaggio della fiera del libro.

Estensione del boicottaggio: boicottaggio e sanzioni da electronic intifada (non mi riconosce il link; questo è l'indirizzo http://electronicintifada.net/bytopic/boycott-divestment-sanctions.shtml) e lista dei prodotti da boicottare


Le argomentazioni sollevate contro l’opportunità del boicottaggio delle Fiera del Libro di Torino sono le più varie e originano da considerazioni di moralità, di opportunità o di efficacia di un tale strumento.

Innanzitutto è necessario distinguere tra boicottaggio e censura. Il boicottaggio è istituzionale, ossia ciò che viene preso di mira è la decisione di una istituzione (come la Fiera del Libro) di celebrare un evento (60 anni dalla nascita dello Stato di Israele) controverso e provocatorio perché offensivo per un intero popolo, quello che ha dovuto fare posto alla violenza del nuovo Stato. La censura, invece, colpisce le persone, i singoli intellettuali che esprimono idee personali, magari anche impopolari, ma con tutto il diritto di farlo. Il boicottaggio non intende togliere il diritto di espressione alla persona ma ne contesta la strumentalizzazione in vista di un altro fine (che non è culturale ma propagandistico o comunque politico). Le stesse cose che gli scrittori israeliani hanno intenzione di dire nel contesto celebrativo della fiera, potrebbero dirle nella stanza accanto, di fronte alla stessa platea, ma senza direttamente o indirettamente contribuire all’evento celebrativo che va a vantaggio soltanto dell’immagine di Israele e del suo attuale governo. Opporsi al boicottaggio significa tentare di evitare il dibattito e contribuire al mantenimento dello status quo. Ogni occasione che accenda la discussione, anche in toni polemici, aiuta quindi la causa della pace.

Il boicottaggio è moralmente giustificabile?

Quando il boicottaggio di uno Stato diventa moralmente giustificabile?

Quando quello Stato ha espulso e forzato all’abbandono della propria terra la maggioranza della popolazione, negando loro il diritto internazionalmente riconosciuto di ritornare alle proprie case? Israele l’ha fatto.

  • Quando ha espropriato migliaia di abitazioni senza compensare i proprietari ora rifugiati in condizioni spesso subumane? Israele l’ha fatto.

  • Quando ha sistematicamente torturato i prigionieri, molti di essi detenuti senza processo? Israele l’ha fatto.

  • Quando ha assassinato i suoi oppositori (eseguendo sentenze di morte senza processo), compresi quelli residenti nel territorio occupato? Israele l’ha fatto.

  • Quando ha demolito migliaia di case appartenenti ad un altro popolo e insediato centinaia di migliaia di propri cittadini (450 mila in 149 insediamenti) nella terra di quel popolo sradicando alberi di ulivo centenari? Israele l’ha fatto.

  • Quando ha occupato militarmente territori altrui come la Cisgiordania, Gaza e parte della Siria in violazione delle leggi internazionali? Israele l’ha fatto.

  • Quando ha costruito una barriera di separazione con il territorio di un’altra nazione non rispettando i confini internazionali ma sottraendo terre, coltivazioni, separando famiglie tra di loro nel paese confinante? Israele l’ha fatto.

  • Quando ha violato la legislazione internazionale e ignorato con arroganza decine di risoluzioni di condanna delle Nazioni Unite? Israele l’ha fatto.

Nessun paese con simili responsabilità a suo carico può protestare per essere boicottato. Anche il Quartiere di Beverly Hills si sta mobilitando per imporre sanzioni all’Iran senza che questo abbia mai attaccato o occupato i suoi vicini, ma soltanto perché sospettato di aspirare alla stessa arma nucleare che Israele possiede in un numero di almeno cento testate. Nel 1991 la comunità internazionale entrò in guerra contro l’Iraq, poi sottoposto anche a 10 anni di sanzioni economiche (che hanno provocato quasi un milione di morti molti dei quali bambini senza suscitare grandi proteste), per aver invaso il Kuwait. Israele sta occupando da 40 anni illegalmente la Palestina e parte della Siria ma nessuno pensa lo si debba invadere nè sottoporlo a sanzioni.

Mi chiedo quanti di quelli che ardentemente condannano l’idea di boicottare un evento che celebra la nascita dello Stato di Israele, evento che inevitabilmente contribuirà alla accettazione dello status quo e alla normalizzazione della politica coloniale israeliana, abbiano visitato il territorio palestinese occupato, abbiano incontrato i suoi abitanti e toccato con mano le condizioni del popolo palestinese, anche documentandosi da fonti diverse su quanto accaduto in quella regione nel 1948 e in seguito. In altre parole, quanti conoscono realmente la realtà dei fatti che, secondo alcuni, rende necessario uno strumento così odioso ed estremo come il boicottaggio?

Nel linguaggio della legislazione umanitaria internazionale, neutralità significa non schierarsi con alcuna della parti, ossia non prendere posizione circa la giustezza o la validità di una determinata causa. Imparzialità vuol dire trattare i contendenti allo stesso modo, utilizzando gli stessi criteri di giudizio per valutare le azioni di entrambe le parti senza offrire vantaggi all’uno o all’altro. Nel caso della questione palestinese è difficile essere coerenti con questi principi, e il comportamento della comunità internazionale ne è un chiaro esempio. Se tuttavia da una parte la imparzialità può essere vista come un obiettivo realistico da raggiungere, dall’altra il principio della neutralità mostra tutti i suoi limiti.

La realtà più sconvolgente che incontra chi deve muoversi all’interno del TPO e che costringe chiunque vi assista a prendere una posizione sono i checkpoint. E’ difficile con un termine così apparentemente benigno trasmettere tutto l’orrore di un simile luogo. Mai visto un recinto pieno zeppo di animali con un unico cancello di uscita comandato da un pastore armato di bastone? Beh, al posto del pastore mettete un soldato Israeliano armato di fucile e, al posto degli animali, i palestinesi. Code, a volte lunghissime sotto il sole cocente o la pioggia, dove ad una ad una la gente mostra i documenti, viene interrogata, qualcuno viene fatto passare, qualcun altro rimandato indietro, a seconda dell’umore del soldato. Urla, spintoni, donne e bambini che piangono, uomini umiliati del volto teso. La spiegazione secondo cui questi checkpoint servirebbero alla sicurezza è un’ovvia menzogna: sono situati infatti tra città e villaggi palestinesi e non tra Palestina e Israele.

Dal 2002 all’aprile 2007, 68 donne sono state costrette a partorire ad un checkpoint, 4 di loro e 34 neonati sono morti http://www.ifamericansknew.org/cur_sit/68births.html. Molti dei bambini nati in tali condizioni hanno subito gravi danni cerebrali. Immaginiamo l’umiliazione di un marito o di il figlio, impotenti di fronte alla moglie o alla madre costretta a sopportare i dolori del parto all’aperto, con un imberbe soldato armato che assiste indifferente, e forse si può capire come nascono gli attentati suicidi.

Esiste una associazione di donne israeliane http://www.machsomwatch.org/en che passano intere giornate a controllare come si comportano coloro che potrebbero essere i loro figli, nipoti o fratelli militari israeliani. Munite di seggiolini portatili, al mattino si recano al checkpoint assegnato, si siedono ed osservano silenziose. Il più delle volte i giovani soldati, in evidente imbarazzo e timorosi di essere rimproverati da queste coraggiose donne, adottano un comportamento conciliatorio con la gente che attende in fila.

Dal 1967 Israele ha demolito 18.000 abitazioni, spesso sulla testa dei suoi occupanti (http://www.icahd.org/eng). La ragione addotta? La sicurezza. La verità è che se un palestinese possiede un pezzo di terra, per edificare o estendere una abitazione esistente deve fare una domanda del costo di 20.000 dollari, comunque sempre rigettata e quindi, se la famiglia si allarga, è costretta a costruire senza permesso. Arriva allora il bulldozer. I palestinesi, dopo il danno, devono anche subire la beffa di dovere rimuovere essi stessi i detriti e pagare al governo israeliano il costo della demolizione.

Non si boicotta la cultura!

Uno dei punti scottanti del dibattito è che la cultura rappresenta uno dei pochi luoghi simbolici dove è possibile un dialogo vero e costruttivo. La libertà accademica e di parola, si sostiene, può rappresentare per gli intellettuali israeliani il punto di forza per premere per il cambiamento della politica israeliana e quindi anche per mettere fine all’occupazione del territorio palestinese.

Quello che tuttavia non viene detto è che senza una reale libertà di parola anche per gli intellettuali palestinesi e senza una libertà di istruzione degli studenti palestinesi non si può concepire un dialogo costruttivo che porti ad una soluzione a lungo termine del conflitto. Se la libertà di espressione e di istruzione significa qualcosa, deve valere per tutti.

Nessuno ha mai protestato contro la violazione della libertà accademica, di studio, di parola perpetrata da Israele contro le università e le scuole palestinesi. A Gaza 200.000 studenti hanno iniziato questo anno scolastico senza libri di testo perché Israele, che mantiene questa striscia di terra nelle condizioni di prigione all’aria aperta, considera carta e inchiostro come non “diritti umani fondamentali”. Nessun difensore di Israele, nemmeno i suoi intellettuali più progressisti, hanno protestato a favore dei diritti dei bambini palestinesi alla cultura.

Sotto l’occupazione israeliana, tutte le 11 università palestinesi sono state in momenti diversi chiuse, quella di Birzeit per 4 anni dal 1988 al 1992, quella di Hebron per 8 mesi nel 2003. L’università di Tel Aviv è situata su quello che era un villaggio palestinese, Sheikh Muwannis, i cui abitanti furono espulsi dalle milizie ebree nel marzo 1948 e a cui è negato il diritto di ritornare alle proprie case. L’Università Ebraica in Gerusalemme occupa oltre tre ettari di terra illegalmente espropriata a privati cittadini palestinesi dopo la guerra del 1967. L’università di Bar Ilan ha un campus in un insediamento colonico illegale nella Cisgiordania. Lo stesso vale per l’università di Ariel che la barriera costruita da Israele all’interno (e non lungo il confine) del territorio palestinese colloca dalla parte israeliana decretandone quindi la inevitabile prossima incorporazione nel territorio di Israele. Questa università accetta soltanto studenti internazionali che siano ebrei.

Dal 2000 185 scuole palestinesi sono state bombardate e dozzine di professori e studenti feriti, uccisi o arrestati. Oltre 500 tra posti di controllo e blocchi stradali, assieme ad un complicatissimo sistema di permessi necessari per potersi spostare, impediscono l’accesso a scuole e università di studenti e docenti. Questa situazione comporta anche che gli studenti siano limitati nelle loro scelte di corsi, insegnamenti e istituzioni da frequentare. Gli ostacoli opposti dalle procedure necessarie per potere studiare o lavorare nelle università palestinesi sono spesso enormi e insormontabili. L’ostruzione sistematica del sistema educativo palestinese non viola soltanto i diritti umani dei soggetti coinvolti ma mina anche alle radici la possibilità di sviluppo della società palestinese nel suo insieme. E così, mentre gli accademici e i politici israeliani sono impegnati nel mobilitare il mondo intero per proteggere la libertà di parola dei loro intellettuali, altri accademici, istituzioni accademiche ricercatori e studenti che cercano di esercitare la loro libertà di studio e di parola sono in effetti boicottati e impediti di farlo.

La libertà di parola per gli intellettuali, la libertà di circolazione della cultura è un valore cruciale per lo sviluppo e la crescita umana da difendere con forza. Ma non è un valore assoluto che ha la precedenza su tutto il resto, non ha niente di sacro o comunque di intrinsecamente superiore alle altre libertà. E comunque si accompagna sempre al dovere di rispettare le altre libertà. I valori della vita e della dignità umana devono essere gli obiettivi ultimi e a volte possono anche essere non completamente compatibili con una totale libertà accademica.

La libertà di parola inoltre viene anche nella pratica limitata non soltanto quando si cerca di far passare la critica alla politica del governo israeliano come una posizione anti-semita, ma anche con l’uso di strumenti di pressione e di condizionamento più velati ma non meno violenti come le telefonate intimidatorie personalmente ricevute da chi scrive. L’accusa di anti-semitismo a chi critica Israele è assurda e offensiva e presuppone una identità di interessi tra il governo di Israele e tutti gli ebrei del mondo. Ciò è evidentemente falso: esistono innumerevoli gruppi e associazioni di ebrei fortemente critici nei confronti della occupazione israeliana e a favore del boicottaggio.

Chi è contro lo strumento del boicottaggio ma riconosce la violenza della occupazione e la profonda ingiustizia a cui il popolo palestinese è soggetto da parte di Israele ha il dovere morale di indicare uno strumento alternativo che sia altrettanto temuto, e quindi potenzialmente assai efficace a modificare il comportamento di chi ne è fatto oggetto. Nel 2005 la società civile palestinese ha lanciato una campagna internazionale di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni come strumento di pressione non violento affinché Israele rispetti le leggi internazionali. Decine di associazioni religiose, civili, ebraiche e palestinesi, organizzazioni secolari, governative, non-governative e università si sono attivate e stanno lavorando in questo senso.

Perché Israele? Perché prendersela proprio con Israele quando ci sono tanti altri governi che andrebbero puniti?

La tattica del boicottaggio è basata non soltanto su una questione di principio ma anche su considerazioni strategiche: Israele (come a suo tempo il Sudafrica) ambisce ad essere visto come parte dell’occidente ma per essere accettato deve rispettare le regole internazionali. Non si possono avere due pesi e due misure. Israele tiene molto alla sua immagine pubblica e allo scopo ha creato una densa rete di relazioni economiche e culturali in occidente. In questo senso aveva meno significato boicottare dittatori e regimi del terzo mondo (come ad esempio Pol Pot) perché non certo interessati ad essere accettati nel consesso civile.

Israele si presenta come il bastione della democrazia nel medio oriente, il difensore della civiltà occidentale di fronte alla dilagante orda di fondamentalismo islamico e al preteso inevitabile scontro di civiltà. Israele rappresenta un luminoso esempio di intraprendenza e ingegnosità, disciplina, coraggio, forza di volontà, determinazione e così via. E’ l’ultimo stato vittima dell’ultimo popolo, il più nobile, quello che ha sofferto più a lungo, il più perseguitato, il più intelligente, il Prescelto da Dio. Israele quindi non può non essere giudicato su di uno standard superiore a qualsiasi altro Stato dal momento che si presenta al mondo intero con tali credenziali accettate senza discutere da generazioni di folle affascinate. Israele è riuscita a scampare a critiche feroci che Paesi altrettanto famosi e ritenuti bastioni di civiltà hanno invece accettato di riconoscere: gli USA per la strage di My Lai e la guerra in Vietnam, la Germania per il Nazismo, la Francia per le torture in Algeria. Di questi paesi possiamo chiederci: Cosa è andato storto? Come è successo che siano arrivati a tanto? Con Israele no, non si può. Le atrocità di cui abbiamo le prove (dalla espulsione violenta di centinaia di migliaia di palestinesi dalla loro terra con stragi come quella di Deir Yassin nel 1948, ad atti terroristici come la carneficina del King David Hotel nel 1946 compiuta dal futuro primo ministro Menachem Begin) appartengono alla normalità, alla tradizione a cui Israele si ispira e di cui è fiera.

Soltanto Israele può impunemente sfidare ogni volta le Nazioni Unite, il consesso planetario istituito per regolamentare i suoi membri, e rifiutare di sottostare alle sue risoluzioni. Israele ha infatti la capacità di evitare e zittire qualsiasi critica: bombardamenti non proprio “mirati” con innumerevoli vittime collaterali, ambulanze colpite o bloccate, alberi da frutta e ulivi sradicati, fogne distrutte, coprifuoco della durata di settimane, blocchi stradali con derrate alimentari lasciate marcire, cinque volte più acqua assegnata ai coloni illegalmente insediati in terra palestinese che non ai palestinesi a cui la terra è stata confiscata, attacchi ad ospedali, scuole e università.

Nei confronti dei suoi alleati non ha nemmeno più il ritegno di fingere un minimo di imbarazzo. Anzi, sembra quasi provare soddisfazione ad umiliare quegli ‘stupidi americani’ e l’intero occidente dicendo: “Sappiamo che non vi piace quello che facciamo ma non ce ne importa niente perché non ci uniformiamo alle vostre regole. Le regole le facciamo noi anche per gli altri!” (M. Neumann, Counterpunch , July 6, 2002). Israele è protetto da una inossidabile corazza di impunità che non solo ha fatto sì che il governo USA abbia posto il veto a 41 risoluzioni di condanna del Consiglio di Sicurezza (metà di tutti i veto usati dagli Usa alle NU), ma anche che il Presidente Bush abbia annunciato un aumento degli aiuti militari ad Israele fino a 30 miliardi di $ per i prossimi 10 anni.

Ormai è chiaro che l’obiettivo di Israele è di fare della Palestina uno stato ebraico con una presenza il più possibile ridotta di palestinesi essendo il problema demografico la maggiore preoccupazione della attuale leadership israeliana. Di qui la sempre più esplicita politica di pulizia etnica condotta da Israele. Il messaggio da lanciare proposto dallo storico ebreo israeliano Ilan Pappe è che “nel secolo XXI uno Stato che si basa su questa ideologia non può essere accolto come membro della comunità delle nazioni civili. Il boicottaggio è il sistema migliore, non violento, per lanciare il messaggio che noi riconosciamo questa infrastruttura ideologica dello stato israeliano.” Così come era successo con il Sudafrica dell’apartheid.

Il boicottaggio è una semplice tattica, un’arma non violenta a disposizione dei singoli individui membri della società civile. E’ semplicemente una forma di protesta: molti di coloro che la adottano sono attivi anche in altre campagne e movimenti contro la guerra, contro le pratiche non etiche delle multinazionali, contro la pena di morte. Nessuno chiede a chi partecipa ad una campagna contro l’occupazione del Tibet da parte della Cina “perché non Israele?”, nè contesta il fatto che Israele partecipi al boicottaggio di Cuba. La questione allora non è tanto “Perché concentrarsi su Israele quando altri governi meriterebbero di essere boicottati?”, ma “Perché Israele no?” Altri paesi sono attualmente soggetti a boicottaggio (Cuba) e altri lo sono stati (Iraq) senza che gli effetti perversi provocati abbiano troppo scomposto la comunità internazionale. Lo strumento del boicottaggio, sanzioni economiche e di altro tipo, inoltre, è incluso (Art 41 UN Charter) nelle modalità che gli stati membri delle Nazioni Unite hanno a disposizione per intervenire contro chi viola la legislazione internazionale.

La tattica del boicottaggio ha il grande merito di essere non violenta e fornire una modalità con cui ciascuno di noi, anche la persona più mite e timida, può esprimere un impegno morale. L’effetto immediato di mobilizzazione che ciò ha sul singolo individuo coinvolto non è meno importante del suo reale effetto sulla causa in sé (fare cambiare politica al governo di Israele) che richiederà tempi lunghi per avere successo. Il boicottaggio rappresenta inevitabilmente uno strumento divisivo, crudele e che fa pagare costi anche a chi non merita di essere punito. Forse dovrebbero gli stessi intellettuali israeliani invitati a Torino a fare la scelta di non accettare di essere strumentalizzati per celebrare un evento che, se da una parte ha dato una terra ad un popolo, dall’altra ha rappresentato la catastrofe di un altro popolo. In questo modo essi renderebbero il migliore servizio alla libertà di cultura di tutti.

Liquidare come antisemitismo la critica alla politica coloniale e razzista di Israele è una meschinità che mostra la incapacità a confrontarsi sui fatti e sulle idee. Un tale atteggiamento inoltre finisce per svalutare profondamente il significato stesso di antisemitismo, di questo potente termine da riservare soltanto a chi mostra disprezzo e pregiudizio contro gli Ebrei come gruppo e come individui, dovunque essi risiedano, non tanto per quello che fanno ma per quello che sono. L’abuso di questa parola porta pericolosamente alla progressiva diluizione del suo significato e della sua forza simbolica dirompente.

Perché non invitare anche intellettuali palestinesi?

Le oggettive condizioni di “occupante” e “occupato”, e le evidenti asimmetrie tra Israele e Palestina in termini di sviluppo socio-economico, potere in seno alla comunità internazionale, capacità di penetrazione mediatica e impatto degli eventi sulla opinione pubblica mondiale (si confronti il clamore giornalistico che segue un morto ammazzato israeliano rispetto ad uno palestinese), rendono problematici anche gli sforzi di riconciliazione tra le due parti che alcuni propongono. Questi tentativi si fondano in genere sul presupposto che, facilitando l’azione comune in settori chiave, come ad esempio quello culturale, sanitario o sociale, si possa creare un canale indipendente di dialogo che porta a maggiore comprensione reciproca. Contro un tale approccio si e’ schierata una vasta parte della società palestinese che accusa i suoi promotori, per quanto bene intenzionati, di non sapere discernere l’ambiguità e l’ipocrisia insita in iniziative che intendono offrire soluzioni esterne a problemi creati dall’occupazione israeliana, che non riflettono le priorità dei presunti beneficiari, che non tengono in considerazione la colpevole indifferenza dell’establishment scientifico e culturale israeliano, e che pretendono di essere apolitiche quando invece gran parte dei benefici in termini di immagine e di potere finisce inevitabilmente soltanto a favore di uno dei contendenti.

Coloro che suggeriscono la possibilità di un riavvicinamento non condizionato al comune rispetto della legislazione umanitaria internazionale e dei diritti umani e al riconoscimento di una uguale umanità sono o sprovveduti o disonesti. Se una tale uguaglianza non pre-sussiste, qualsiasi interazione e rapporto si riduce semplicemente ad un esercizio di negoziazione asimmetrica tra oppressore e oppresso. Il mutuo riconoscimento della uguale dignità delle due parti deve per forza essere una necessaria pre-condizione al dialogo e non una sua conseguenza. Non è fare giustizia chiedere ai palestinesi di pagare in anticipo il “prezzo politico” di sedere allo stesso tavolo in condizioni di “equivalenza morale” in cambio del magnanimo riconoscimento da parte di Israele di una striminzita serie di “diritti” (come il permesso a passare un posto di blocco, o andare a scuola).

Conclusione

Molti, moltissimi (senza dubbio molti di più di coloro che hanno il coraggio di esporsi pubblicamente e dire la propria opinione) riconoscono la gravità delle violazioni della legislazione internazionale da parte di Israele. La sfida adesso è fare qualcosa che abbia un effetto nella pratica, che sposti la situazione di stallo in cui ci troviamo. Soltanto le pressioni che Israele paventa talmente da non riuscire a dissimulare il timore di subirle (ossia quelle che mettono in crisi la sua appartenenza al consesso della “civiltà” occidentale) possono raggiungere un tale risultato.

I fatti e i numeri qui raccontati, anche se ben raramente citati dai più comuni mezzi di informazione, sono di pubblico dominio e facilmente accessibili. A coloro che, pur simpatizzando per la causa palestinese, sono contrari al boicottaggio rivolgo la seguente domanda: che cosa intendono fare per i palestinesi, boicottati e abbandonati a se stessi così a lungo dal mondo intero?



martedì 6 gennaio 2009

Discorso del subcomandante Marcos a nome dell'EZLN

audio del discorso....


De siembras y cosechas.

Tal vez lo que voy a decir no venga al caso de lo que es el tema central de esta mesa, o tal vez sí.

Hace dos días, el mismo en el que nuestra palabra se refirió a la violencia, la inefable Condoleezza Rice, funcionaria del gobierno norteamericano, declaró que lo que estaba pasando en Gaza era culpa de los palestinos, por su naturaleza violenta.

Los ríos subterráneos que recorren el mundo pueden cambiar de geografía, pero entonan el mismo canto.

Y el que ahora escuchamos es de guerra y de pena.

No muy lejos de aquí, en un lugar llamado Gaza, en Palestina, en Medio Oriente, aquí al lado, un ejército fuertemente armado y entrenado, el del gobierno de Israel, continúa su avance de muerte y destrucción.

Los pasos que ha seguido son, hasta ahora, los de una guerra militar clásica de conquista: primero un bombardeo intenso y masivo para destruir puntos militares “neurálgicos” (así les dicen los manuales militares) y para “ablandar” las fortificaciones de resistencia; después el férreo control sobre la información: todo lo que se escuche y vea “en el mundo exterior”, es decir, externo al teatro de operaciones, debe ser seleccionado con criterios militares; ahora fuego intenso de artillería sobre la infantería enemiga para proteger el avance de las tropas a nuevas posiciones; después será el cerco y sitio para debilitar a la guarnición enemiga; después el asalto que conquiste la posición aniquilando al enemigo, después la “limpieza” de los probables “nidos de resistencia”.

El manual militar de guerra moderna, con algunas variaciones y agregados, está siendo seguido paso a paso por las fuerzas militares invasoras.

Nosotros no sabemos mucho de esto y, es seguro, hay especialistas sobre el llamado “conflicto en Medio Oriente”, pero desde este rincón algo tenemos que decir:

Según las fotos de las agencias noticiosas, los puntos “neurálgicos” destruidos por la aviación del gobierno de Israel son casas habitación, chozas, edificios civiles. No hemos visto ningún bunker, ni cuartel o aeropuerto militar, o batería de cañones, entre lo destruido. Entonces nosotros, disculpen nuestra ignorancia, pensamos que o los artilleros de los aviones tienen mala puntería o en Gaza no existen tales puntos militares “neurálgicos”.

No tenemos el honor de conocer Palestina, pero nosotros suponemos que en esas casas, chozas y edificios habitaba gente, hombres, mujeres, niños y ancianos, y no soldados.

Tampoco hemos visto fortificaciones de resistencia, sólo escombros.

Hemos visto, sí, el hasta ahora vano esfuerzo de cerco informativo y a los distintos gobiernos del mundo dudando entre hacerse patos o aplaudir la invasión, y una ONU, ya inútil desde hace tiempo, sacando tibios boletines de prensa.

Pero esperen. Se nos ha ocurrido ahora que tal vez para el gobierno de Israel esos hombres, mujeres, niños y ancianos son soldados enemigos y, como tales, las chozas, casas y edificios donde habitan son cuarteles que hay que destruir.

Entonces seguramente los fuegos de artillería que esta madrugada caían sobre Gaza eran para proteger de esos hombres, mujeres, niños y ancianos el avance de la infantería del ejército de Israel.

Y la guarnición enemiga a la que quieren debilitar con el cerco y sitio que se está tendiendo en torno a Gaza no es otra cosa que la población palestina que ahí vive. Y que el asalto buscará aniquilar a esa población. Y que cualquier hombre, mujer, niño o anciano que logre escapar, escondiéndose, del asalto previsiblemente sangriento, será luego “cazado” para que la limpieza se complete y el mando militar al mando de la operación pueda reportar a sus superiores “hemos completado la misión”.

Disculpen de nuevo nuestra ignorancia, tal vez lo que estamos diciendo no venga, en efecto, al caso, o cosa, según. Y que en lugar de estar repudiando y condenando el crimen en curso, como indígenas y como guerreros que somos, deberíamos estar discutiendo y tomando posición en la discusión sobre si “sionismo” o “antisemitismo”, o que en el principio fueron las bombas de Hamas.

Tal vez nuestro pensamiento es muy sencillo, y nos faltan los matices y acotaciones tan necesarios siempre en los análisis pero, para nosotras, nosotros, zapatistas, en Gaza hay un ejército profesional asesinando a una población indefensa.

¿Quién que es abajo y a la izquierda puede permanecer callado?

¿Sirve decir algo? ¿Detienen alguna bomba nuestros gritos? Nuestra palabra, ¿salva la vida de algún niño palestino?

Nosotros pensamos que sí sirve, que tal vez no detengamos una bomba ni nuestra palabra se convierta en un escudo blindado que evite que esa bala calibre 5.56 mm o 9 mm, con las letras “IMI”, “Industria Militar Israelí” grabadas en la base del cartucho, llegue al pecho de una niña o un niño, porque tal vez nuestra palabra logre unirse a otras en México y el mundo y tal vez primero se convierta en murmullo, luego en voz alta, y después en un grito que escuchen en Gaza.

No sabemos ustedes, pero nosotros y nosotras, zapatistas del EZLN, sabemos lo importante que es, en medio de la destrucción y la muerte, escuchar unas palabras de aliento.

No sé cómo explicarlo, pero resulta que sí, que las palabras desde lejos tal vez no alcanzan a detener una bomba, pero son como si se abriera una grieta en la negra habitación de la muerte y una lucecita se colara.

Por lo demás, pasará lo que de por sí va a pasar. El gobierno de Israel declarará que le propinó un severo golpe al terrorismo, le ocultará a su pueblo la magnitud de la masacre, los grandes productores de armamento habrán obtenido un respiro económico para afrontar la crisis y “la opinión pública mundial”, ese ente maleable y siempre a modo, volteará a mirar a otro lado.

Pero no sólo. También va a pasar que el pueblo Palestino va a resistir y a sobrevivir y a seguir luchando, y a seguir teniendo la simpatía de abajo por su causa.

Y, tal vez, un niño o una niña de Gaza sobrevivan también. Tal vez crezcan y, con ellos, el coraje, la indignación, la rabia. Tal vez se hagan soldados o milicianos de alguno de los grupos que luchan en Palestina. Tal vez se enfrente combatiendo a Israel. Tal vez lo haga disparando un fusil. Tal vez inmolándose con un cinturón de cartuchos de dinamita alrededor de su cintura.

Y entonces, allá arriba, escribirán sobre la naturaleza violenta de los palestinos y harán declaraciones condenando esa violencia y se volverá a discutir si sionismo o antisemitismo.

Y entonces nadie preguntará quién sembró lo que se cosecha.

Por los hombres, mujeres, niños y ancianos del Ejército Zapatista de Liberación Nacional.


[Subcomandante Insurgente Marcos]

México, 4 de enero del 2009.

Se Israele e Bush fomentano lo scontro di civiltà

Incollati davanti ad Al Jaazera che trasmette le immagini delle distruzioni e del massacro che avviene nella striscia di Gaza, i palestinesi della Cisgiordania per non impazzire si fanno muro, come quel muro dell'apartheid e dell'annessione coloniale che Israele continua a costruire con la solita arroganza e la certezza della sua impunità.

Sono rientrata ieri sera dalla Palestina e da Israele, ho accompagnato e organizzato un viaggio di conoscenza e solidariet di un gruppo di 50 italiani di diverse localit ed estrazioni sociali. Siamo stati a Jenin, nel campo profughi dove nel 2002 vi stato un massacro, abbiamo incontrato Zakaria Zubeidi che ha lasciato le armi per una resistenza culturale e non violenta nel Freedom Theatre, deluso da Hamas e da Al Fatah, siamo stati a Tuwani, a Hebron, dove coloni fanatici tengono in ostaggio migliaia e migliaia di palestinesi, a Betlemme dove il muro taglia la citt e i campi, a Gerusalemme Est dove Um Kamel stata cacciata dalla sua casa per far posto a coloni ebrei che non sono sopravvissuti all'olocausto ma arrivano da Brooklyn, sostenuti dai finanziamenti di organizzazioni estremiste ebraiche e dal Tribunale Israeliano.

Ovunque abbiamo trovato dolore, rabbia, ognuno di loro ci ha messo di fronte alle responsabilit della Comunit Internazionale, complice e inerte di fronte ai crimini dei governi israeliani. Ma abbiamo trovato anche determinazione a continuare a resistere quotidianamente e a non farsi distruggere nemmeno psicologicamente dall' ingiustizia dell'occupazione.

L'autorità Palestinese dal giorno dei bombardamenti a Gaza ha dichiarato uno sciopero generale di tre giorni. Gerusalemme Est era deserta come nei giorni degli scioperi della prima Intifadah. Salam Fayyad, primo ministro, nell'incontro che abbiamo avuto ci ha chiesto di lavorare per il Cessate il fuoco immediato e ad impegnare l' Unione Europea a sospendere il potenziamento delle relazioni e della Cooperazione con Israele.

Abbiamo partecipato a diverse manifestazioni in Palestina e Israele, a Ramallah, Jaffa, Gerusalemme. Purtroppo non manifestazioni di massa. A Ramallah la manifestazione pi grande anche se con scontri tra Hamas e Fatah e la polizia palestinese che tentava di distruggere emblemi di Hamas e ad impedire scontri al check point di Beit El con i soldati israeliani. Ma come diceva Nayla Ayesh di Gaza, rifugiata a Ramallah, "anche se con scontri almeno qui siamo tutti insieme". A Jaffa vi erano i giovani e le giovani Refusnik, gli anarchici contro il muro, la coalizione delle donne per la pace, e in grande prevalenza giovani donne di origine palestinese, con slogan che mettevano in imbarazzo noi, gli israeliani e i palestinesi della sinistra. Infatti Allah Akbar - Allah grande - era lo slogan pi urlato.

Tante sono le iniziative in Israele dai Refusnik, ai poeti,, agli scrittori, ai combattenti per la pace, Tayyush, i partiti arabi in Israele, le donne per la pace, Gush Shalom ieri ha manifestato insieme a tanti altri gruppi a Tel Aviv. Gli israeliani che manifestano sono davvero persone straordinarie, il fatto che non siano milioni di loro che inorridiscono di fronte alla persistente scelta militare di Israele non li rende meno importanti.

Gli intellettuali pi conosciuti da noi come Amos Oz a Yehoushua, continuano a svolgere un ruolo tragico, sempre a giustificare la necessit degli attacchi militari e a chiedere poi di fermarsi, come con la costruzione del muro. Peace Now, a partire dalla seconda Intifadah ha smesso di svolgere un ruolo di movimento e si limitata a denunciare e a monitorare la crescita degli insediamenti.

Del resto anche in Europa, la consapevolezza che vi tra la popolazione (malgrado la manipolazione dei media) della disparit tra i bombardamenti e i rockets non si traduce in mobilitazione di massa. Le pi grandi manifestazioni si sono tenute in Francia, Belgio e Gran Bretagna dove numerose sono le comunit arabe e musulmane e come a Jaffa gli slogan che risuonavano di pi erano quelli di "Allah Akbar". Nulla ovviamente contro chi crede in Allah, ma d il segno di come dalle guerre preventive di Bush alla non soluzione del diritto dei palestinesi ad un loro stato, sia cresciuto lo "scontro di civilt" e di come un conflitto come quello palestinese israeliano, che per la sovranit nazionale contro la colonizzazione dei territori occupati nel 1967 abitati non solo da musulmani ma da cristiani, armeni, circassi, atei, agnostici, sempre di pi viene fatto apparire come scontro tra islamici fondamentalisti e il "mondo libero". E' il messaggio che porta Tzipi Livni quando visita i nostri paesi.

Intanto i sondaggi in Israele rivelano che Ehud Barak senza fare campagna elettorale cresciuto nelle preferenze. Noi dovremo mobilitarci anche per riuscire a portare Barak, Livni e altri davanti alla Corte Internazionale di Giustizia. Ma ora soprattutto per il Cessate il Fuoco subito, per la fine dell'assedio e il blocco degli insediamenti. Che si fermino i bombardamenti a Gaza e i rockets su Israele. Che non vi siano altre vite perse siano essi palestinesi o israeliani.

[Luisa Morgantini, vicepresidente del Parlamento Europeo]

da Il Manifesto 4 gennaio 2009

Vergogna?

Leggo così frequentemente la parola "vergogna" in questi giorni.
Vergogna per un massacro di quasi 600 persone in pochi giorni, vergogna per le bombe lanciate su case, ospedali e moschee, vergogna per un combattimento tra muli e carretti contro carroarmati, vergogna per un genocidio...

Il genocidio è iniziato il 27 dicembre 2008......

Per i Palestinesi il genocidio è inziato sessant'anni fa e dura da sessant'anni...
Questa è la questione.
La vergogna viene fuori quando ci sono i missili e i corpi squarciati di fronte a una telecamera.
Ma l'indignazione per un embargo che dura da due anni e mezzo, per l'impossibilità di uscire dalla striscia per andare a fare una chemioterapia, la disoccupazione alle stelle, l'impossibilità di pescare al largo (e quindi di pescare!!) pena mitragliatori israeliani addosso, il blocco delle materie prime (farina, petrolio compresi) dov'è, dov'è l'indignazione per la morte lenta, quella lontana dalle televisioni?

La vergogna è di chi, nascondendosi dietro alla paura di un crescente antisemitismo, continua a giustificare un colonialismo e un occupazione mistificandola a scontro religioso o di civiltà.

La vergogna è nel silenzio sui sessan'anni dell'occupazione della Palestina, sui posti di blocco ai chekpoint, sull'impossibilità di andare all'università o al lavoro, sulla distruzione e l'espropriazione di terre, sulle case dei coloni costruite sulle macerie dei villaggi palestinesi, sulle torture, sulle umiliazioni, sulle lacrime delle madri che vedono arrestati i loro figli perchè fanno volantinaggio in università, sulla disperazione delle mogli che guardano l'IDF portare via incappucciati i mariti mentre gattonano come cani.

La vergogna è dei fratelli musulmani che, incatenati dentro la logica del profitto e del commercio con chi permette questo cronico genocidio, se ne fottono della Palestina.

La vergogna è dell'Egitto che non apre le frontiere su Gaza.

La vergogna è dell'Unione Europea, della politica italiana (comunisti compresi) che morsi dal senso di colpa di una Shoa finita sessant'anni fa e mangiati dalla loro mentalità "alleta" tacciono su una Nakba che invece dura da sessan'anni.

La vergogna è nei mezzi di informazione che continuano a dipingere i Palestinesi come "naturalmente" terroristi senza contestualizzare, senza sentire l'esasperazione di chi le ha provate proprio tutte. Leila Khaled scriveva: "A quelli che si riferiscono alla lotta di liberazione palestinese chiamandola terrorismo, vorrei ricordare: chi e' che ha portato il terrorismo nelle nostre vite? Noi non abbiamo piantato il terrore nella nostra patria, e' il nemico che l'ha fatto. Dunque i termini dovrebbero essere ristabiliti, sforzandoci, per una volta, di vedere da dove e perche' il terrore e' venuto fuori."

La vergogna è nostra, intima.

Per lo stato di Israele e gli amici americani invece la vergogna non basta...

sabato 3 gennaio 2009

QUANTI MORTI ANCORA PER SENTIRVI CITTADINI DI GAZA?




Ramallah, 27 dicembre 2008.


E leggerò domani, sui vostri giornali, che a Gaza è finita la tregua. Non era un assedio dunque, ma una forma di pace, quel campo di concentramento falciato dalla fame e dalla sete. E da cosa dipende la differenza tra la pace e la guerra? Dalla ragioneria dei morti? E i bambini consumati dalla malnutrizione, a quale conto si addebitano? Muore di guerra o di pace, chi muore perché manca l'elettricità in sala operatoria? Si chiama pace quando mancano i missili - ma come si chiama, quando manca tutto il resto?

E leggerò sui vostri giornali, domani, che tutto questo è solo un attacco preventivo, solo legittimo, inviolabile diritto di autodifesa. La quarta potenza militare al mondo, i suoi muscoli nucleari contro razzi di latta, e cartapesta e disperazione. E mi sarà precisato naturalmente, che no, questo non è un attacco contro i civili - e d'altra parte, ma come potrebbe mai esserlo, se tre uomini che chiacchierano di Palestina, qui all'angolo della strada, sono per le leggi israeliane un nucleo di resistenza, e dunque un gruppo illegale, una forza combattente? - se nei documenti ufficiali siamo marchiati come entità nemica, e senza più il minimo argine etico, il cancro di Israele? Se l'obiettivo è sradicare Hamas - tutto questo rafforza Hamas. Arrivate a bordo dei caccia a esportare la retorica della democrazia, a bordo dei caccia tornate poi a strangolare l'esercizio della democrazia - ma quale altra opzione rimane? Non lasciate che vi esploda addosso improvvisa. Non è il fondamentalismo, a essere bombardato in questo momento, ma tutto quello che qui si oppone al fondamentalismo. Tutto quello che a questa ferocia indistinta non restituisce gratuito un odio uguale e contrario, ma una parola scalza di dialogo, la lucidità di ragionare il coraggio di disertare - non è un attacco contro il terrorismo, questo, ma contro l'altra Palestina, terza e diversa, mentre schiva missili stretta tra la complicità di Fatah e la miopia di Hamas. Stava per assassinarmi per autodifesa, ho dovuto assassinarlo per autodifesa - la racconteranno così, un giorno i sopravvissuti.

E leggerò sui vostri giornali, domani, che è impossibile qualsiasi processo di pace, gli israeliani, purtroppo, non hanno qualcuno con cui parlare. E effettivamente - e ma come potrebbero mai averlo, trincerati dietro otto metri di cemento di Muro? E soprattutto - perché mai dovrebbero averlo, se la Road Map è solo l'ennesima arma di distrazione di massa per l'opinione pubblica internazionale? Quattro pagine in cui a noi per esempio, si chiede di fermare gli attacchi terroristici, e in cambio, si dice, Israele non intraprenderà alcuna azione che possa minare la fiducia tra le parti, come - testuale - gli attacchi contro i civili. Assassinare civili non mina la fiducia, mina il diritto, è un crimine di guerra non una questione di cortesia. E se Annapolis è un processo di pace, mentre l'unica mappa che procede sono qui intanto le terre confiscate, gli ulivi spianati le case demolite, gli insediamenti allargati - perché allora non è processo di pace la proposta saudita? La fine dell'occupazione, in cambio del riconoscimento da parte di tutti gli stati arabi. Possiamo avere se non altro un segno di reazione? Qualcuno, lì, per caso ascolta, dall'altro lato del Muro?

Ma sto qui a raccontarvi vento. Perché leggerò solo un rigo domani, sui vostri giornali e solo domani, poi leggerò solo, ancora, l'indifferenza. Ed è solo questo che sento, mentre gli F16 sorvolano la mia solitudine, verso centinaia di danni collaterali che io conosco nome a nome, vita a vita - solo una vertigine di infinito abbandono e smarrimento. Europei, americani e anche gli arabi - perché dove è finita la sovranità egiziana, al varco di Rafah, la morale egiziana, al sigillo di Rafah? - siamo semplicemente soli. Sfilate qui, delegazione dopo delegazione - e parlando, avrebbe detto Garcia Lorca, le parole restano nell'aria, come sugheri sull'acqua. Offrite aiuti umanitari, ma non siamo mendicanti, vogliamo dignità libertà, frontiere aperte, non chiediamo favori, rivendichiamo diritti. E invece arrivate, indignati e partecipi, domandate cosa potete fare per noi. Una scuola? Una clinica forse? Delle borse di studio? E tentiamo ogni volta di convincervi - no, non la generosa solidarietà, insegnava Bobbio, solo la severa giustizia - sanzioni, sanzioni contro Israele. Ma rispondete - e neutrali ogni volta, e dunque partecipi dello squilibrio, partigiani dei vincitori - no, sarebbe antisemita. Ma chi è più antisemita, chi ha viziato Israele passo a passo per sessant'anni, fino a sfigurarlo nel paese più pericoloso al mondo per gli ebrei, o chi lo avverte che un Muro marca un ghetto da entrambi i lati? Rileggere Hannah Arendt è forse antisemita, oggi che siamo noi palestinesi la sua schiuma della terra, è antisemita tornare a illuminare le sue pagine sul potere e la violenza, sull'ultima razza soggetta al colonialismo britannico, che sarebbero stati infine gli inglesi stessi? No, non è antisemitismo, ma l'esatto opposto, sostenere i tanti israeliani che tentano di scampare a una nakbah chiamata sionismo. Perché non è un attacco contro il terrorismo, questo, ma contro l'altro Israele, terzo e diverso, mentre schiva il pensiero unico stretto tra la complicità della sinistra e la miopia della destra.

So quello che leggerò, domani, sui vostri giornali. Ma nessuna autodifesa, nessuna esigenza di sicurezza. Tutto questo si chiama solo apartheid - e genocidio. Perché non importa che le politiche israeliane, tecnicamente, calzino oppure no al millimetro le definizioni delicatamente cesellate dal diritto internazionale, il suo aristocratico formalismo, la sua pretesa oggettività non sono che l'ennesimo collateralismo, qui, che asseconda e moltiplica la forza dei vincitori. La benzina di questi aerei è la vostra neutralità, è il vostro silenzio, il suono di queste esplosioni. Qualcuno si sentì berlinese, davanti a un altro Muro. Quanti altri morti, per sentirvi cittadini di Gaza?

[Mustafà Barghouti, ex ministro dell'informazione del governo di unità nazionale palestinese]