giovedì 8 gennaio 2009

Boycott Israel




Da un articolo del mio prof., Angelo Stefanini

Riguarada il boicottaggio della fiera del libro.

Estensione del boicottaggio: boicottaggio e sanzioni da electronic intifada (non mi riconosce il link; questo è l'indirizzo http://electronicintifada.net/bytopic/boycott-divestment-sanctions.shtml) e lista dei prodotti da boicottare


Le argomentazioni sollevate contro l’opportunità del boicottaggio delle Fiera del Libro di Torino sono le più varie e originano da considerazioni di moralità, di opportunità o di efficacia di un tale strumento.

Innanzitutto è necessario distinguere tra boicottaggio e censura. Il boicottaggio è istituzionale, ossia ciò che viene preso di mira è la decisione di una istituzione (come la Fiera del Libro) di celebrare un evento (60 anni dalla nascita dello Stato di Israele) controverso e provocatorio perché offensivo per un intero popolo, quello che ha dovuto fare posto alla violenza del nuovo Stato. La censura, invece, colpisce le persone, i singoli intellettuali che esprimono idee personali, magari anche impopolari, ma con tutto il diritto di farlo. Il boicottaggio non intende togliere il diritto di espressione alla persona ma ne contesta la strumentalizzazione in vista di un altro fine (che non è culturale ma propagandistico o comunque politico). Le stesse cose che gli scrittori israeliani hanno intenzione di dire nel contesto celebrativo della fiera, potrebbero dirle nella stanza accanto, di fronte alla stessa platea, ma senza direttamente o indirettamente contribuire all’evento celebrativo che va a vantaggio soltanto dell’immagine di Israele e del suo attuale governo. Opporsi al boicottaggio significa tentare di evitare il dibattito e contribuire al mantenimento dello status quo. Ogni occasione che accenda la discussione, anche in toni polemici, aiuta quindi la causa della pace.

Il boicottaggio è moralmente giustificabile?

Quando il boicottaggio di uno Stato diventa moralmente giustificabile?

Quando quello Stato ha espulso e forzato all’abbandono della propria terra la maggioranza della popolazione, negando loro il diritto internazionalmente riconosciuto di ritornare alle proprie case? Israele l’ha fatto.

  • Quando ha espropriato migliaia di abitazioni senza compensare i proprietari ora rifugiati in condizioni spesso subumane? Israele l’ha fatto.

  • Quando ha sistematicamente torturato i prigionieri, molti di essi detenuti senza processo? Israele l’ha fatto.

  • Quando ha assassinato i suoi oppositori (eseguendo sentenze di morte senza processo), compresi quelli residenti nel territorio occupato? Israele l’ha fatto.

  • Quando ha demolito migliaia di case appartenenti ad un altro popolo e insediato centinaia di migliaia di propri cittadini (450 mila in 149 insediamenti) nella terra di quel popolo sradicando alberi di ulivo centenari? Israele l’ha fatto.

  • Quando ha occupato militarmente territori altrui come la Cisgiordania, Gaza e parte della Siria in violazione delle leggi internazionali? Israele l’ha fatto.

  • Quando ha costruito una barriera di separazione con il territorio di un’altra nazione non rispettando i confini internazionali ma sottraendo terre, coltivazioni, separando famiglie tra di loro nel paese confinante? Israele l’ha fatto.

  • Quando ha violato la legislazione internazionale e ignorato con arroganza decine di risoluzioni di condanna delle Nazioni Unite? Israele l’ha fatto.

Nessun paese con simili responsabilità a suo carico può protestare per essere boicottato. Anche il Quartiere di Beverly Hills si sta mobilitando per imporre sanzioni all’Iran senza che questo abbia mai attaccato o occupato i suoi vicini, ma soltanto perché sospettato di aspirare alla stessa arma nucleare che Israele possiede in un numero di almeno cento testate. Nel 1991 la comunità internazionale entrò in guerra contro l’Iraq, poi sottoposto anche a 10 anni di sanzioni economiche (che hanno provocato quasi un milione di morti molti dei quali bambini senza suscitare grandi proteste), per aver invaso il Kuwait. Israele sta occupando da 40 anni illegalmente la Palestina e parte della Siria ma nessuno pensa lo si debba invadere nè sottoporlo a sanzioni.

Mi chiedo quanti di quelli che ardentemente condannano l’idea di boicottare un evento che celebra la nascita dello Stato di Israele, evento che inevitabilmente contribuirà alla accettazione dello status quo e alla normalizzazione della politica coloniale israeliana, abbiano visitato il territorio palestinese occupato, abbiano incontrato i suoi abitanti e toccato con mano le condizioni del popolo palestinese, anche documentandosi da fonti diverse su quanto accaduto in quella regione nel 1948 e in seguito. In altre parole, quanti conoscono realmente la realtà dei fatti che, secondo alcuni, rende necessario uno strumento così odioso ed estremo come il boicottaggio?

Nel linguaggio della legislazione umanitaria internazionale, neutralità significa non schierarsi con alcuna della parti, ossia non prendere posizione circa la giustezza o la validità di una determinata causa. Imparzialità vuol dire trattare i contendenti allo stesso modo, utilizzando gli stessi criteri di giudizio per valutare le azioni di entrambe le parti senza offrire vantaggi all’uno o all’altro. Nel caso della questione palestinese è difficile essere coerenti con questi principi, e il comportamento della comunità internazionale ne è un chiaro esempio. Se tuttavia da una parte la imparzialità può essere vista come un obiettivo realistico da raggiungere, dall’altra il principio della neutralità mostra tutti i suoi limiti.

La realtà più sconvolgente che incontra chi deve muoversi all’interno del TPO e che costringe chiunque vi assista a prendere una posizione sono i checkpoint. E’ difficile con un termine così apparentemente benigno trasmettere tutto l’orrore di un simile luogo. Mai visto un recinto pieno zeppo di animali con un unico cancello di uscita comandato da un pastore armato di bastone? Beh, al posto del pastore mettete un soldato Israeliano armato di fucile e, al posto degli animali, i palestinesi. Code, a volte lunghissime sotto il sole cocente o la pioggia, dove ad una ad una la gente mostra i documenti, viene interrogata, qualcuno viene fatto passare, qualcun altro rimandato indietro, a seconda dell’umore del soldato. Urla, spintoni, donne e bambini che piangono, uomini umiliati del volto teso. La spiegazione secondo cui questi checkpoint servirebbero alla sicurezza è un’ovvia menzogna: sono situati infatti tra città e villaggi palestinesi e non tra Palestina e Israele.

Dal 2002 all’aprile 2007, 68 donne sono state costrette a partorire ad un checkpoint, 4 di loro e 34 neonati sono morti http://www.ifamericansknew.org/cur_sit/68births.html. Molti dei bambini nati in tali condizioni hanno subito gravi danni cerebrali. Immaginiamo l’umiliazione di un marito o di il figlio, impotenti di fronte alla moglie o alla madre costretta a sopportare i dolori del parto all’aperto, con un imberbe soldato armato che assiste indifferente, e forse si può capire come nascono gli attentati suicidi.

Esiste una associazione di donne israeliane http://www.machsomwatch.org/en che passano intere giornate a controllare come si comportano coloro che potrebbero essere i loro figli, nipoti o fratelli militari israeliani. Munite di seggiolini portatili, al mattino si recano al checkpoint assegnato, si siedono ed osservano silenziose. Il più delle volte i giovani soldati, in evidente imbarazzo e timorosi di essere rimproverati da queste coraggiose donne, adottano un comportamento conciliatorio con la gente che attende in fila.

Dal 1967 Israele ha demolito 18.000 abitazioni, spesso sulla testa dei suoi occupanti (http://www.icahd.org/eng). La ragione addotta? La sicurezza. La verità è che se un palestinese possiede un pezzo di terra, per edificare o estendere una abitazione esistente deve fare una domanda del costo di 20.000 dollari, comunque sempre rigettata e quindi, se la famiglia si allarga, è costretta a costruire senza permesso. Arriva allora il bulldozer. I palestinesi, dopo il danno, devono anche subire la beffa di dovere rimuovere essi stessi i detriti e pagare al governo israeliano il costo della demolizione.

Non si boicotta la cultura!

Uno dei punti scottanti del dibattito è che la cultura rappresenta uno dei pochi luoghi simbolici dove è possibile un dialogo vero e costruttivo. La libertà accademica e di parola, si sostiene, può rappresentare per gli intellettuali israeliani il punto di forza per premere per il cambiamento della politica israeliana e quindi anche per mettere fine all’occupazione del territorio palestinese.

Quello che tuttavia non viene detto è che senza una reale libertà di parola anche per gli intellettuali palestinesi e senza una libertà di istruzione degli studenti palestinesi non si può concepire un dialogo costruttivo che porti ad una soluzione a lungo termine del conflitto. Se la libertà di espressione e di istruzione significa qualcosa, deve valere per tutti.

Nessuno ha mai protestato contro la violazione della libertà accademica, di studio, di parola perpetrata da Israele contro le università e le scuole palestinesi. A Gaza 200.000 studenti hanno iniziato questo anno scolastico senza libri di testo perché Israele, che mantiene questa striscia di terra nelle condizioni di prigione all’aria aperta, considera carta e inchiostro come non “diritti umani fondamentali”. Nessun difensore di Israele, nemmeno i suoi intellettuali più progressisti, hanno protestato a favore dei diritti dei bambini palestinesi alla cultura.

Sotto l’occupazione israeliana, tutte le 11 università palestinesi sono state in momenti diversi chiuse, quella di Birzeit per 4 anni dal 1988 al 1992, quella di Hebron per 8 mesi nel 2003. L’università di Tel Aviv è situata su quello che era un villaggio palestinese, Sheikh Muwannis, i cui abitanti furono espulsi dalle milizie ebree nel marzo 1948 e a cui è negato il diritto di ritornare alle proprie case. L’Università Ebraica in Gerusalemme occupa oltre tre ettari di terra illegalmente espropriata a privati cittadini palestinesi dopo la guerra del 1967. L’università di Bar Ilan ha un campus in un insediamento colonico illegale nella Cisgiordania. Lo stesso vale per l’università di Ariel che la barriera costruita da Israele all’interno (e non lungo il confine) del territorio palestinese colloca dalla parte israeliana decretandone quindi la inevitabile prossima incorporazione nel territorio di Israele. Questa università accetta soltanto studenti internazionali che siano ebrei.

Dal 2000 185 scuole palestinesi sono state bombardate e dozzine di professori e studenti feriti, uccisi o arrestati. Oltre 500 tra posti di controllo e blocchi stradali, assieme ad un complicatissimo sistema di permessi necessari per potersi spostare, impediscono l’accesso a scuole e università di studenti e docenti. Questa situazione comporta anche che gli studenti siano limitati nelle loro scelte di corsi, insegnamenti e istituzioni da frequentare. Gli ostacoli opposti dalle procedure necessarie per potere studiare o lavorare nelle università palestinesi sono spesso enormi e insormontabili. L’ostruzione sistematica del sistema educativo palestinese non viola soltanto i diritti umani dei soggetti coinvolti ma mina anche alle radici la possibilità di sviluppo della società palestinese nel suo insieme. E così, mentre gli accademici e i politici israeliani sono impegnati nel mobilitare il mondo intero per proteggere la libertà di parola dei loro intellettuali, altri accademici, istituzioni accademiche ricercatori e studenti che cercano di esercitare la loro libertà di studio e di parola sono in effetti boicottati e impediti di farlo.

La libertà di parola per gli intellettuali, la libertà di circolazione della cultura è un valore cruciale per lo sviluppo e la crescita umana da difendere con forza. Ma non è un valore assoluto che ha la precedenza su tutto il resto, non ha niente di sacro o comunque di intrinsecamente superiore alle altre libertà. E comunque si accompagna sempre al dovere di rispettare le altre libertà. I valori della vita e della dignità umana devono essere gli obiettivi ultimi e a volte possono anche essere non completamente compatibili con una totale libertà accademica.

La libertà di parola inoltre viene anche nella pratica limitata non soltanto quando si cerca di far passare la critica alla politica del governo israeliano come una posizione anti-semita, ma anche con l’uso di strumenti di pressione e di condizionamento più velati ma non meno violenti come le telefonate intimidatorie personalmente ricevute da chi scrive. L’accusa di anti-semitismo a chi critica Israele è assurda e offensiva e presuppone una identità di interessi tra il governo di Israele e tutti gli ebrei del mondo. Ciò è evidentemente falso: esistono innumerevoli gruppi e associazioni di ebrei fortemente critici nei confronti della occupazione israeliana e a favore del boicottaggio.

Chi è contro lo strumento del boicottaggio ma riconosce la violenza della occupazione e la profonda ingiustizia a cui il popolo palestinese è soggetto da parte di Israele ha il dovere morale di indicare uno strumento alternativo che sia altrettanto temuto, e quindi potenzialmente assai efficace a modificare il comportamento di chi ne è fatto oggetto. Nel 2005 la società civile palestinese ha lanciato una campagna internazionale di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni come strumento di pressione non violento affinché Israele rispetti le leggi internazionali. Decine di associazioni religiose, civili, ebraiche e palestinesi, organizzazioni secolari, governative, non-governative e università si sono attivate e stanno lavorando in questo senso.

Perché Israele? Perché prendersela proprio con Israele quando ci sono tanti altri governi che andrebbero puniti?

La tattica del boicottaggio è basata non soltanto su una questione di principio ma anche su considerazioni strategiche: Israele (come a suo tempo il Sudafrica) ambisce ad essere visto come parte dell’occidente ma per essere accettato deve rispettare le regole internazionali. Non si possono avere due pesi e due misure. Israele tiene molto alla sua immagine pubblica e allo scopo ha creato una densa rete di relazioni economiche e culturali in occidente. In questo senso aveva meno significato boicottare dittatori e regimi del terzo mondo (come ad esempio Pol Pot) perché non certo interessati ad essere accettati nel consesso civile.

Israele si presenta come il bastione della democrazia nel medio oriente, il difensore della civiltà occidentale di fronte alla dilagante orda di fondamentalismo islamico e al preteso inevitabile scontro di civiltà. Israele rappresenta un luminoso esempio di intraprendenza e ingegnosità, disciplina, coraggio, forza di volontà, determinazione e così via. E’ l’ultimo stato vittima dell’ultimo popolo, il più nobile, quello che ha sofferto più a lungo, il più perseguitato, il più intelligente, il Prescelto da Dio. Israele quindi non può non essere giudicato su di uno standard superiore a qualsiasi altro Stato dal momento che si presenta al mondo intero con tali credenziali accettate senza discutere da generazioni di folle affascinate. Israele è riuscita a scampare a critiche feroci che Paesi altrettanto famosi e ritenuti bastioni di civiltà hanno invece accettato di riconoscere: gli USA per la strage di My Lai e la guerra in Vietnam, la Germania per il Nazismo, la Francia per le torture in Algeria. Di questi paesi possiamo chiederci: Cosa è andato storto? Come è successo che siano arrivati a tanto? Con Israele no, non si può. Le atrocità di cui abbiamo le prove (dalla espulsione violenta di centinaia di migliaia di palestinesi dalla loro terra con stragi come quella di Deir Yassin nel 1948, ad atti terroristici come la carneficina del King David Hotel nel 1946 compiuta dal futuro primo ministro Menachem Begin) appartengono alla normalità, alla tradizione a cui Israele si ispira e di cui è fiera.

Soltanto Israele può impunemente sfidare ogni volta le Nazioni Unite, il consesso planetario istituito per regolamentare i suoi membri, e rifiutare di sottostare alle sue risoluzioni. Israele ha infatti la capacità di evitare e zittire qualsiasi critica: bombardamenti non proprio “mirati” con innumerevoli vittime collaterali, ambulanze colpite o bloccate, alberi da frutta e ulivi sradicati, fogne distrutte, coprifuoco della durata di settimane, blocchi stradali con derrate alimentari lasciate marcire, cinque volte più acqua assegnata ai coloni illegalmente insediati in terra palestinese che non ai palestinesi a cui la terra è stata confiscata, attacchi ad ospedali, scuole e università.

Nei confronti dei suoi alleati non ha nemmeno più il ritegno di fingere un minimo di imbarazzo. Anzi, sembra quasi provare soddisfazione ad umiliare quegli ‘stupidi americani’ e l’intero occidente dicendo: “Sappiamo che non vi piace quello che facciamo ma non ce ne importa niente perché non ci uniformiamo alle vostre regole. Le regole le facciamo noi anche per gli altri!” (M. Neumann, Counterpunch , July 6, 2002). Israele è protetto da una inossidabile corazza di impunità che non solo ha fatto sì che il governo USA abbia posto il veto a 41 risoluzioni di condanna del Consiglio di Sicurezza (metà di tutti i veto usati dagli Usa alle NU), ma anche che il Presidente Bush abbia annunciato un aumento degli aiuti militari ad Israele fino a 30 miliardi di $ per i prossimi 10 anni.

Ormai è chiaro che l’obiettivo di Israele è di fare della Palestina uno stato ebraico con una presenza il più possibile ridotta di palestinesi essendo il problema demografico la maggiore preoccupazione della attuale leadership israeliana. Di qui la sempre più esplicita politica di pulizia etnica condotta da Israele. Il messaggio da lanciare proposto dallo storico ebreo israeliano Ilan Pappe è che “nel secolo XXI uno Stato che si basa su questa ideologia non può essere accolto come membro della comunità delle nazioni civili. Il boicottaggio è il sistema migliore, non violento, per lanciare il messaggio che noi riconosciamo questa infrastruttura ideologica dello stato israeliano.” Così come era successo con il Sudafrica dell’apartheid.

Il boicottaggio è una semplice tattica, un’arma non violenta a disposizione dei singoli individui membri della società civile. E’ semplicemente una forma di protesta: molti di coloro che la adottano sono attivi anche in altre campagne e movimenti contro la guerra, contro le pratiche non etiche delle multinazionali, contro la pena di morte. Nessuno chiede a chi partecipa ad una campagna contro l’occupazione del Tibet da parte della Cina “perché non Israele?”, nè contesta il fatto che Israele partecipi al boicottaggio di Cuba. La questione allora non è tanto “Perché concentrarsi su Israele quando altri governi meriterebbero di essere boicottati?”, ma “Perché Israele no?” Altri paesi sono attualmente soggetti a boicottaggio (Cuba) e altri lo sono stati (Iraq) senza che gli effetti perversi provocati abbiano troppo scomposto la comunità internazionale. Lo strumento del boicottaggio, sanzioni economiche e di altro tipo, inoltre, è incluso (Art 41 UN Charter) nelle modalità che gli stati membri delle Nazioni Unite hanno a disposizione per intervenire contro chi viola la legislazione internazionale.

La tattica del boicottaggio ha il grande merito di essere non violenta e fornire una modalità con cui ciascuno di noi, anche la persona più mite e timida, può esprimere un impegno morale. L’effetto immediato di mobilizzazione che ciò ha sul singolo individuo coinvolto non è meno importante del suo reale effetto sulla causa in sé (fare cambiare politica al governo di Israele) che richiederà tempi lunghi per avere successo. Il boicottaggio rappresenta inevitabilmente uno strumento divisivo, crudele e che fa pagare costi anche a chi non merita di essere punito. Forse dovrebbero gli stessi intellettuali israeliani invitati a Torino a fare la scelta di non accettare di essere strumentalizzati per celebrare un evento che, se da una parte ha dato una terra ad un popolo, dall’altra ha rappresentato la catastrofe di un altro popolo. In questo modo essi renderebbero il migliore servizio alla libertà di cultura di tutti.

Liquidare come antisemitismo la critica alla politica coloniale e razzista di Israele è una meschinità che mostra la incapacità a confrontarsi sui fatti e sulle idee. Un tale atteggiamento inoltre finisce per svalutare profondamente il significato stesso di antisemitismo, di questo potente termine da riservare soltanto a chi mostra disprezzo e pregiudizio contro gli Ebrei come gruppo e come individui, dovunque essi risiedano, non tanto per quello che fanno ma per quello che sono. L’abuso di questa parola porta pericolosamente alla progressiva diluizione del suo significato e della sua forza simbolica dirompente.

Perché non invitare anche intellettuali palestinesi?

Le oggettive condizioni di “occupante” e “occupato”, e le evidenti asimmetrie tra Israele e Palestina in termini di sviluppo socio-economico, potere in seno alla comunità internazionale, capacità di penetrazione mediatica e impatto degli eventi sulla opinione pubblica mondiale (si confronti il clamore giornalistico che segue un morto ammazzato israeliano rispetto ad uno palestinese), rendono problematici anche gli sforzi di riconciliazione tra le due parti che alcuni propongono. Questi tentativi si fondano in genere sul presupposto che, facilitando l’azione comune in settori chiave, come ad esempio quello culturale, sanitario o sociale, si possa creare un canale indipendente di dialogo che porta a maggiore comprensione reciproca. Contro un tale approccio si e’ schierata una vasta parte della società palestinese che accusa i suoi promotori, per quanto bene intenzionati, di non sapere discernere l’ambiguità e l’ipocrisia insita in iniziative che intendono offrire soluzioni esterne a problemi creati dall’occupazione israeliana, che non riflettono le priorità dei presunti beneficiari, che non tengono in considerazione la colpevole indifferenza dell’establishment scientifico e culturale israeliano, e che pretendono di essere apolitiche quando invece gran parte dei benefici in termini di immagine e di potere finisce inevitabilmente soltanto a favore di uno dei contendenti.

Coloro che suggeriscono la possibilità di un riavvicinamento non condizionato al comune rispetto della legislazione umanitaria internazionale e dei diritti umani e al riconoscimento di una uguale umanità sono o sprovveduti o disonesti. Se una tale uguaglianza non pre-sussiste, qualsiasi interazione e rapporto si riduce semplicemente ad un esercizio di negoziazione asimmetrica tra oppressore e oppresso. Il mutuo riconoscimento della uguale dignità delle due parti deve per forza essere una necessaria pre-condizione al dialogo e non una sua conseguenza. Non è fare giustizia chiedere ai palestinesi di pagare in anticipo il “prezzo politico” di sedere allo stesso tavolo in condizioni di “equivalenza morale” in cambio del magnanimo riconoscimento da parte di Israele di una striminzita serie di “diritti” (come il permesso a passare un posto di blocco, o andare a scuola).

Conclusione

Molti, moltissimi (senza dubbio molti di più di coloro che hanno il coraggio di esporsi pubblicamente e dire la propria opinione) riconoscono la gravità delle violazioni della legislazione internazionale da parte di Israele. La sfida adesso è fare qualcosa che abbia un effetto nella pratica, che sposti la situazione di stallo in cui ci troviamo. Soltanto le pressioni che Israele paventa talmente da non riuscire a dissimulare il timore di subirle (ossia quelle che mettono in crisi la sua appartenenza al consesso della “civiltà” occidentale) possono raggiungere un tale risultato.

I fatti e i numeri qui raccontati, anche se ben raramente citati dai più comuni mezzi di informazione, sono di pubblico dominio e facilmente accessibili. A coloro che, pur simpatizzando per la causa palestinese, sono contrari al boicottaggio rivolgo la seguente domanda: che cosa intendono fare per i palestinesi, boicottati e abbandonati a se stessi così a lungo dal mondo intero?



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